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E’ un racconto appassionato quello che mi accompagna in una mattina assolata di fine febbraio nello studio di Arcangelo Pessot. La luce fuori ha tutto il sapore di una primavera che nel chiuso della stanza non si coglie: qui vivono altri segni e colori e a illuminare il luogo sono le opere e le parole del pittore. Forse ad Arcangelo suona strano essere definito “pittore”.

Dopo oltre quarant’anni impiegati quasi esclusivamente in attività imprenditoriali distanti dalla pittura, decidere di riprendere tele e pennelli per assecondare una voce mai sopita, è sicuramente una scelta forte ma non così determinante da giustificare l’appellativo di “artista”. Eppure il numero di quadri realizzati dal 2019 ai nostri giorni è notevolissimo e la sensazione vera è quella di trovarsi negli spazi di uno studio a tutti gli effetti, ingombro di tele e telai a terra, di colori e di vernici sul tavolo. Il rapporto di Arcangelo con la pittura mi ricorda molto l’andamento di un fiume carsico che dopo un lungo e accidentato percorso sotterraneo torna in superficie per manifestare tutta la sua intensità.

I suoi esordi, tralasciando l’istintiva vocazione rimarcata dagli insegnanti alla scuola dell’obbligo, risalgono ai primi anni Settanta, quando all’Istituto d’Arte di Venezia sperimenta varie tecniche ma soprattutto affina gli studi sulla teoria dei colori con le relative scale armoniche, le tonalità e tutte le sintesi additive e sottrattive. E’ l’epoca in cui la scena nazionale ed europea è dominata dalle tendenze optical e cinetiche, dalle indagini intorno alle convergenze tra arte, tecnica e industria, rivolte in particolare alla cultura non figurativa e all’elogio di un astrattismo geometrico che guarda ai maestri russi, in primis Kandinsky e i Costruttivisti. Sono gli anni in cui Bruno Munari teorizza un “mondo di mezzo” compreso tra l’arte, la scienza e la poesia che dà vita a un gioco poliedrico di forme e oggetti dove creatività, fantasia e movimento si incontrano. Il fascino della visione, libera da ogni riferimento concreto, colpisce l’immaginario di Arcangelo, rappresenta qualcosa di completamente diverso e staccato, è una dimensione nuova rispetto ai perimetri consueti, ai circuiti visivi conosciuti. Lo confermano tutti gli esercizi e le numerose opere su carta che attraverso composizioni lineari o a scacchiera documentano una ricerca quasi ossessiva dell’ordine, del ritmo, della costanza e naturalmente del colore.

L’approdo successivo all’Accademia di Belle Arti di Venezia e l’incontro folgorante con Emilio Vedova, costituiscono l’origine di una sorta di rivoluzione interiore che lo porta a riflettere sulla funzione e sulla missione dell’arte. Le lezioni del Maestro contrassegnate da un pensare per immagini e da quell’aura gestuale che, a detta di tutti coloro che lo hanno frequentato, non poteva lasciare indifferenti, diventano per Arcangelo lo spunto per dare libero sfogo all’affollato universo iconografico che la vita veneziana faceva sorgere in maniera sempre più forte. Nascono lavori di medie e grandi dimensioni caratterizzati da una felice resa compositiva dove segno e colore esprimono l’immancabile tensione razionale e geometrica e insieme la ricerca spasmodica di un equilibrio tra pieni e vuoti, sottolineata dalla funzione cardine dell’ordine cromatico che guida ogni sensazione percettiva.

Interessanti i lavori a collage in cui pezzi di giornali e grafie diversificate contaminano lo spazio, animando la superficie di contrappunti decisamente magnetici e coinvolgenti. Si tratta spesso di lavori su carta preceduti da un bozzetto: come nella più alta e felice tradizione, il bozzetto anticipa e in qualche modo contiene l’idea che verrà sviluppata nel formato più ampio e agile. Che si parli di tempere, di lavori eseguiti con vernici sintetiche o con l’impiego di gessetti, non cambia l’esito finale, non muta l’impatto visivo robusto e solido giocato sulla profondità e tridimensionalità, sulla volontà di ispezionare altre dimensioni al fine di oltrepassare, quasi, i limiti fisici della carta o della tela.

Il desiderio di superare la superficie bidimensionale ha trovato attuazione, nel secondo anno di Accademia (1976) in due opere significative. La prima, intitolata “Composizione”, includeva un assemblaggio di elementi policromi ed era stata posizionata nel cortile stesso dell’Accademia. La seconda, dal titolo suggestivo “ Salva il verde per la tua libertà”, era una sorta di pitto-scultura (al confine dell’installazione), composta da travi, tronchi, finestre, porte vecchie e da sei tempere su carta messe a telaio e mirava, nella forma elaborata e complessa, a un coinvolgimento totale dello spettatore e, aggiungiamo noi, a una sua presa di posizione nei confronti della società.  Sicuramente un titolo-frase che conteneva il sapore del progresso, della contestazione, delle mutazioni di una società che sempre più si allontanava dal mondo rurale di cui lo stesso Arcangelo faceva ancora parte. Non a caso l’occhio del nostro autore nelle calli veneziane o nel paese natale era rivolto ad oggetti abbandonati, vecchi e consunti, a grumi di immondizia, attrezzi obsoleti, a tubi o plastiche corrose: tutte tracce di un mondo in trasformazione che il gesto pittorico avrebbe poi sublimato nella meccanica delle soluzioni astratte, nell’intrico degli incastri razionali costituiti di rettangoli colorati o, all’opposto, di forme regolari in bianco e nero.

Accanto alla più spiccata geometria, gli anni dell’Accademia hanno conosciuto altre  sperimentazioni vicine a Bacon, a Mirò, all’action painting di Pollock, agli arabeschi convulsi di Hartung. Tutti i lavori raccoglievano sempre giudizi positivi e approvazioni lusinghiere, soprattutto per quanto concerne il segno o, meglio, la linea  marcata, istintiva, dinamica, riassuntiva e sintetica. Una linea che incarnava tutte le istanze di un temperamento fiero, combattivo, a volte ribelle e spesso insofferente di fronte alle contraddizioni della vita.

Arcangelo ricorda perfettamente le accese discussioni con Vedova sulla situazione dell’arte, del mercato, sul ruolo dell’artista, sulla funzione delle idee e delle opere.

“L’arte resiste, sopravvive al tempo?”

Una domanda- rovello che ha tormentato e continua a tormentare il nostro pittore.

La decisione improvvisa di abbandonare l’Accademia e intraprendere altre vie può avere tante o nessuna spiegazione, come, credo, la scelta altrettanto inaspettata di riprendere in mano, dopo oltre quarant’anni di quasi totale assenza, tele, colori e pennelli. Se a guidare la mente è una passione vera, penso ci siano ragioni sufficienti a motivare tutti i cambiamenti che avvengono nell’arco dell’esistenza.

Di fatto, Arcangelo, in un anno di frenetica attività, ha collezionato oltre trecento opere che se non potranno documentarci l’evoluzione diacronica della sua pittura, sicuramente ci diranno molto del suo presente. Un presente che mantiene la medesima urgenza creativa con un linguaggio espressivo ancora una volta scevro di riferimenti naturalistici e dotato di una vitalità sorprendente. Linee spezzate e sghembe, intersezioni di rettangoli, inclinazioni di angoli sospesi visti dall’alto, dal basso, obliqui o in diagonale rendono la superficie mossa, suggeriscono profondità e spazi immaginari secondo una logica e una progettazione che dal futurismo conduce al design industriale di avanguardia.

Composizioni centripete o centrifughe si alternano a soluzioni più pacate e distese; non mancano prove di assoluta gestualità dove imperano sciabolate di luce e colore di vedoviana memoria. Una pittura che nelle sfaccettature dell’informale ci pare voglia tracciare, come un sismografo, le infinite declinazioni emotive e tutti gli stati d’animo non solo dell’artista ma di ogni spettatore attento o distratto perché, dopotutto, ogni tela racchiude, sempre, un frammento di vita e di respiro autentici.

Lorena Gava